Knowing Isn’t Coaching (L’essere competenti non significa fare Coaching)

Knowing Isn’t Coaching (L’essere competenti non significa fare Coaching)

Il coach non deve essere esperto nella materia del coachee.
Il coach non deve dare consigli.
Il coach non è un consulente.
Il coach non è un mentor.
Eppure, anche dopo la chiusura del contratto di Coaching, quando è chiaro con quale cappello professionale stiamo intraprendendo il nuovo progetto, la “trappola della conoscenza” è sempre in agguato.
Il bisogno di dimostrare a noi stessi e al coachee di “sapere” è talvolta legato all’ansia della prestazione, alla moda del momento o ad una troppo rigida interpretazione delle convenzioni e può diventare una pericolosa “arma a doppio taglio”.

Facciamo un esempio.
L’iter convenzionale prevede che le persone seguano un percorso prescritto (una convenzione appunto), che a sua volta implichi di imparare il processo “corretto”. Si segue il copione e poi, una volta imparato, lo si può adattare e farlo nostro.
Se, da un lato, questo approccio possa presentare alcuni vantaggi (tra cui una sorta di rassicurazione nel seguire le aspettative e un adattamento a vincoli precisi), dall’altro implica l’esistenza di un unico modello “giusto”; che funzioni fondamentalmente per tutti, perdendo di vista quello che ci sta proponendo il coachee.
Questo lato della medaglia può generare emozioni come l’ansia, può bloccare l’autenticità, può portare (estremizzando) ad ignorare le differenze culturali e personali, può rafforzare un locus of control esterno (attribuzione della responsabilità verso l’esterno) e può portare a concentrarsi su una mappa che sta “al di fuori” piuttosto che a far crescere l’intuizione dall’interno.
Una simile attenzione rivolta verso l’esterno, se non bilanciata da una altrettanto allenata capacità nello “stare in quello che c’è” (come già accennato in un mio precedente articolo) spinge alla conformità e riduce la curiosità.
La complessità di non avere una risposta chiara (che a volte si esprime con la paura di non aver fatto la domanda giusta) può essere difficile da “abitare”, ma allo stesso tempo può essere estremamente liberatoria perché ci consente di tornare ad ascoltare noi stessi e la nostra saggezza interiore.

Trappole di questo genere le ho personalmente incontrate spesso e ogni volta mi sono ripromessa di tornare alle parole di grandi insegnanti, i quali mi hanno sempre detto che la conoscenza, i metodi, i modelli e le etichette sono importanti per nutrire la nostra saggezza, allo stesso tempo per manifestarsi, questa stessa saggezza, ha bisogno di non restarne vincolata. Si tratta di un pensiero che aiuta a tenermi lontana da pattern disfunzionali in sessione.
E voi, riuscite a riconoscere un vostro schema (mentale, comportamentale, emozionale) legato a quando pensate di “non sapere”? Ad esempio, se non conoscete la risposta (o la domanda giusta!), vi viene il dubbio di non essere abbastanza bravi?

Osservatevi in situazioni passate: quando sentite quel senso di minaccia di “non sapere”, come reagite? A quale emozione si lega? Paura, ansia, preoccupazione, dubbio, inquietudine, insicurezza, vulnerabilità?
Ora trasformate l’emozione in una guida, come se la sensazione percepita vi stia ponendo una domanda o una serie di domande importanti per aiutarvi a essere un coach migliore.

Ad esempio:
• Quanto siete connessi alle vostre emozioni?
• Quanto siete attenti a ciò che è veramente importante per il vostro coachee?
• Cosa è davvero essenziale per il vostro coaching in questo momento?

Sono domande potenti di pratica riflessiva, da utilizzare anche in sessioni di mentoring o supervisione, quando da soli non siamo in grado di cogliere i nostri punti ciechi o abbiamo bisogno di alimentare la saggezza interiore grazie al confronto con un altro coach.

A cura di:
Ilaria Iseppato