04 Giu Stare in quello che c’è. Partecipazione come empatia e accoglienza
Il PCC Marker 4.2 recita: “Il coach mostra supporto, empatia o interesse per il cliente”; poco oltre, il 4.4 aggiunge che “il coach collabora con il cliente invitandolo a rispondere in qualsiasi modo agli spunti proposti, accettando tutte le sue risposte”.
Si tratta di elementi chiave del coltivare fiducia e sicurezza che possono diventare particolarmente sfidanti di fronte ad un coachee recalcitrante, distaccato, con un ego invadente o che tende a mettere il coach costantemente “alla prova”.
Anche il coach più navigato sa che situazioni di questo tipo possono essere sempre incontrate: la competenza e l’esperienza possono certamente essere di supporto, ma è altresì vero che la componente sistemica all’interno del quale anche il coach è inserito fa sì che non si possa mai raggiungere la totale neutralità, né che la gestione dei pattern e la navigazione delle emozioni scomode sia sempre pienamente efficace anche per il coach più allenato.
Supervisione e pratica riflessiva mi hanno particolarmente aiutata a trarre i maggiori apprendimenti da queste esperienze, preparandomi anche a gestire con maggiore consapevolezza ed intenzionalità sessioni analoghe in futuro. In che modo? Per esempio, portando alla mia attenzione aspetti talmente ovvi da essere dati per scontati sino a scomparire dal mio radar di consapevolezza: la partecipazione, intesa come alleanza coach-coachee, si costruisce relazionalmente ogni volta, ovvero con tutti i nuovi coachee.
- Cosa ti ha permesso di co-partecipare con minore fatica emotiva in altre situazioni?
- Cosa puoi replicare?
- Cosa, invece, puoi cambiare in maniera funzionale alla situazione attuale?
Resta in ascolto anche di te stesso, per non cadere in trappole quali la fretta di fare o veder accadere qualcosa.
In questo senso, allenati a “stare in quello che c’è”, dando spazio ed accettando che il coachee possa, per esempio, aver bisogno di essere visto, raccontandosi o dilungandosi su aspetti importanti da esplorare o elaborare tramite la narrazione e la condivisione. Al contempo, rivolgi il tuo ascolto al sentire e al non detto del tuo coachee: comprendere le sue emozioni, anche e soprattutto quelle tra le righe o sotto la superficie dell’acqua, ti permetterà sempre meglio di valutare, a volte necessariamente in pochi istanti, se permetterti per esempio un approccio sfidante o ironico oppure se restare ancora in attesa.
“Stare in quello che c’è” significa anche allontanarsi da un processo metodologico “codificato” se, in quel momento, serve al coachee.
Paradossalmente (ma forse non troppo) non stare in una struttura è essa stessa una struttura, magari addirittura più complessa. Abbraccia anche le “imperfezioni” del processo: anch’esse sono sempre un rimbalzo relazionale di ciò che sta accadendo e non è affatto detto che siano tali in quello spazio di relazione specifico.
Fai crescere la tua empatia, allenandola, in particolar modo proprio in situazioni a te meno comode: in un certo senso, anche l’empatia rischia di essere situazionale come la fiducia (ne avevamo parlato nel precedente articolo “Fiducia e Partecipazione: quale legame?”), mentre la sua vera essenza è proprio quella di creare uno spazio terzo di accoglienza e ascolto ancor più nelle situazioni in cui ci viene meno istintivo farlo.
Quel che è ancora e sempre sorprendente, almeno per me, è come anche le sessioni che partono in salita, o quelle in cui sei portato (spesso dai tuoi stessi pattern di performance) ad autovalutarti in maniera negativa, in realtà si chiudono sovente in modalità inaspettate, con apprendimenti significativi sia per il coachee che per il coach.
A cura di:
Ilaria Iseppato